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Addio Bernardo: da Parma a Hollywood, l’incredibile viaggio di Bertolucci

Da Pasolini a Brando, la vita di un uomo che seppe conquistare l’America. Sempre a modo suo

MILANO – Era riuscito a portare la sua rivoluzione a Hollywood, aveva unito Giuseppe Verdi e il cinema, ricordando a tutto il mondo che l’epica da grande schermo non l’avevano mica inventata gli americani, ma eravamo stati noi italiani con l’opera. Quella era la sua idea di cinema e dire addio oggi a Bernardo Bertolucci – scomparso a 77 anni – significa dire addio a un pezzo di Novecento, a un modo di pensare il cinema grazie a un uomo che seppe essere l’incredibile punto di contatto tra mondi apparentemente inconciliabili, da Pasolini a Marlon Brando, tra Godard e Keanu Reeves, De Niro e Parma, il Partito Comunista e Hollywood. Regista, scrittore, intellettuale quando ancora aveva un senso esserlo, Bertolucci non ha mai avuto paura di essere ambizioso fin da quando, trasferitosi a Roma con il padre, Attilio, il poeta, incontrò Pasolini, amico del padre.

Con i due maestri: Godard e Pasolini.

Un incontro che segnò la sua vita, un incontro da cui cominciò l’avventura nel cinema, prima come aiuto sul set di Accattone, quindi con il debutto alla regia con La commare secca, nel 1962. Poi, con un occhio all’adorata Novelle Vague del mito Godard, iniziò la sua ascesa, un personale viaggio che non poteva che partire dalla sua Parma, filmata in Prima della rivoluzione, il primo capolavoro. Un viaggio non senza difficoltà, ma sempre animato dalla consapevolezza che fare cinema fosse anche un atto politico. Rivedetevi oggi Il conformista per capirne l’inquietante attualità, e rivedetevi anche Ultimo tango a Parigi per capire che lo scandalo non era il burro sul sedere di Maria Schneider ma il concetto di famiglia raccontato nel film da Brando: «Santa famiglia, sacrario di buoni cittadini, dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia, dove la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo».

A Parigi, sul set di Ultimo tango a Parigi con Marlon Brando e Maria Schneider.

Sulle note del tango di Gato Barbieri, Bertolucci dopo quel film perse (addirittura) il diritto di votare, messo alla berlina da un Paese che con la solita dose di ipocrisia nemmeno quindici anni dopo ne avrebbe celebrato il trionfo a Hollywood con gli Oscar per L’ultimo imperatore e la copertina di Time. Oggi, ripensando e riguardando decine di vecchie fotografie chiusi in una stanza, ecco riemergere la vera essenza di Bertolucci, un provinciale che non ebbe mai paura di considerarsi tale e che un giorno decise di prendersi Hollywood, senza nessun compromesso, senza nessun rimpianto. Quella sera dell’11 aprile del 1988 lo Shrine di Los Angeles si alzò in piedi per lui e Robin Williams porse l’Oscar a un maestro che non si considerava tale e che a Hollywood ci andò con la tessera del PCI in tasca.

Con De Niro a Parma sul set di Novecento.

Ma cosa rimane oggi, oltre alle lacrime e alle frasi di circostanza? Molto, moltissimo, ma oltre ai film  rimane soprattutto un esempio di vita e di cinema: Bertolucci fu ambizioso, lo fu sempre a modo suo, non cambiò mai strada nemmeno dopo gli insuccessi, girò con attori come Brando e De Niro senza mai rinnegare la sua italianità, anzi, in qualsiasi mondo portasse il suo cinema, la Cina de L’ultimo imperatore, l’Africa de Il tè nel deserto, la sua impronta era sempre la stessa del ragazzino che una mattina se ne andò da Baccanelli, piccola località di Parma, destinazione Roma e il mondo, un mondo che avrebbe conquistato, ma ancora non lo sapeva. E adesso, in testa, ritornano le parole di Novecento: «Olmo, adesso che sei grande, ricordati questo: imparerai a leggere e a scrivere, ma resterai sempre Dalcò Olmo. Ripeti: cosa resterai sempre? Dalcò Olmo, un paesano!». E allora addio per sempre Bernardo, magnifico, illuminato, paesano.

Da L’ultimo imperatore a The Dreamers: i film di Bertolucci su CHILI

  • Quella volta che Robin Williams consegnò l’Oscar a Bertolucci:

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