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Paolo Ruffini, quei giorni di lockdown e una sorpresa chiamata Ragazzaccio

Un cast perfetto, una sceneggiatura solida e un film riuscito. Ecco perché vedere Ragazzaccio

Paolo Ruffini e il cast di Ragazzaccio.

MILANO – Tre documentari e due commedie da regista in dieci anni, un percorso lungo e spesso imprevedibile, tra MTV e Neri Parenti, con salti e curve improvvise che però ora prendono improvvisamente senso. Perché? Perché guardando attentamente Ragazzaccio sembra che il viaggio di Paolo Ruffini abbia avuto un unico senso: arrivare fino a qui. Arrivare ad una commedia come questa, profondamente italiana, stratificata e intelligente, mai banale e sempre misurata, dolente e commovente allo stesso momento, in cui farci stare il lockdown e Manzoni, i social, Mascagni (!) e il disagio, quello vero. Personaggi credibili, sceneggiatura precisa e un cast scelto e diretto davvero con grande intelligenza. Esageriamo? No.

Lucia e Mattia, ovvero Jenny De Nucci e Alessandro Bisegna.

Ma andiamo con ordine: Mattia (Alessandro Bisegna, perfetto) è un adolescente, uno di quelli che vengono sbattuti fuori dalla classe, uno di quelli che è intelligente ma non si applica. Mattia è arrabbiato. È arrabbiato con i suoi genitori, papà infermiere (Massimo Ghini) e mamma casalinga (Sabrina Impacciatore), ma anche con il mondo intero. Mattia è quello che si direbbe un bullo, capace di prendere di mira disabili e compagni, rispondere male ai professori e fregarsene della scuola. Frequenta (male, molto male) il liceo classico, ma quando un giorno arriva il Covid-19 e finisce in lockdown con la famiglia la sua vita diventa un incubo. Almeno fino all’apparizione di Lucia (Jenny De Nucci, bravissima), una visione su Instagram di un altro futuro possibile.

Ruffini con Nicola Nocella, qui produttore, sul set del film.

Non solo: tra i docenti che non vogliono capire e capirlo, ecco spuntare un illuminato professore di italiano (Giuseppe Fiorello, misurato ed efficace) che parla dei Promessi Sposi e della Provvidenza, beve birra e indica a Mattia un’altra idea di cultura, che non sia nozionismo inutile. Basti così per capire la trama di fondo, ma Ragazzaccio parte da questo spunto per riflettere non solo sul bullismo, ma sul concetto di felicità e collettività, di disagio e adolescenza, di famiglia e di responsabilità sociale (Ghini superlativo). Ruffini usa così la storia di Mattia per raccontare l’inadeguatezza di tutti: degli adulti, dei ragazzi, della scuola, della famiglia, perfino di una società che fallisce miseramente nel salvare i suoi stessi componenti (vedi il monologo sui respiratori) in un momento terribile.

ragazzaccio
Massimo Ghini e Sabrina Impacciatore sul set.

Alla fine Ragazzaccio funziona esattamente come uno specchio: ognuno può vederci ciò che vuole, un pezzo di ciò che è, forse un frammento di ciò che era, ma è davvero mirabile l’equilibrio tenuto da Ruffini in un film che avrebbe potuto deragliare in più di un momento visti i molti temi toccati. Invece, minuto dopo minuto, senza retorica e con uno stile molto asciutto, fotografa perfettamente quel terribile momento che fu il lockdown, tra l’ansia del futuro, l’angoscia del presente e la sensazione di inutilità che pervadeva tutto. Un film utile, necessario e sorprendente, soprattutto per chi ancora dubitava delle capacità registiche di Ruffini. Non perdetelo.

  • VIDEO | Paolo Ruffini: «Ragazzaccio e il potere del cinema»
  • VIDEO | Il trailer di Ragazzaccio:

 

 

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