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Ma che fine ha fatto Nino Rota? Alla ricerca dell’opera struggente di un formidabile genio

A quarantacinque anni dalla morte del compositore, dialogo con il musicologo Francesco Lombardi

Giovanni Rota Rinaldi in arte Nino Rota: era nato a Bari nel 1911.

MILANO – Il genio non ha bisogno di spiegazioni. Il genio esiste e basta, si manifesta in molti modi, supera tempi, modi ed epoche, non ha data, non ha scadenza. Il 10 aprile 1979 Nino Rota se ne andava per sempre, eppure la sua musica suona ancora oggi moderna come mai, riecheggia in concerti e colonne sonore, per strada e nei musei, dalla metropolitana di Parigi a serie come Kidding con Jim Carrey, in cui il music supervisor Bruce Gilbert ha voluto infilare Amarcord. «Indubbiamente oggi è rimasto tanto, tantissimo di Rota», riflette Francesco Lombardi, musicologo e responsabile dell’Archivio Rota, «soprattutto se si pensa a come corrono le cose e a come è cambiata la fruizione della musica in questi quarant’anni. Se è ricordato abbastanza? Voglio essere propositivo, non mi piacciono le frustrazioni: il nostro è un Paese sovrabbondante di memoria, non sappiamo nemmeno dove mettere i monumenti. A questo va aggiunto che molto spesso il successo in Italia spesso è considerato non un merito, ma un disvalore, crea più problemi che soluzioni».

Nino Rota in un’immagine degli anni Sessanta.

Bambino prodigio, classe 1911, nato a Milano, in via Volta – dove oggi non c’è nulla a ricordarlo – ed entrato al Conservatorio già nel 1923, Rota cominciò a scrivere musica per cinema già nel 1933 grazie a Treno popolare di Raffaello Mattarazzo, primo passo in un mondo che ancora era agli albori del cinema sonoro. «La storia di Rota è una storia affascinante», continua Lombardi, «racconta di un bambino prodigio che si trova a fianco di Ildebrando Pizzetti e che a tredici anni incontra addirittura Ravel, che la madre fece arrivare in una casa di via San Michele del Carso 17 qui a Milano. Poi andò negli Stati Uniti a Philadelphia per due anni e incontrò Toscanini: il tutto ancora prima di aver compiuto vent’anni». Una storia che dalla Lombardia porta in Francia e in America, per poi tornare a Bari, dove Rota rimase a dirigere il Conservatorio per tutta la vita, prima dell’incontro con Federico Fellini che cambiò per sempre la sua vita. Un biopic, praticamente.

Rota con Fellini durante la registrazione di una colonna sonora.

«Rota a diciotto anni era un compositore fatto e finito, aveva un vizio, un’ossessione per la musica», riflette Lombardi, «ma la cosa buffa è che la prima esperienza con il cinema, quella di Treno popolare, fu negativa, non riusciva ad adattarsi ai tempi cinematografici e fece richiesta per un concorso e finì a Taranto». Poteva finire qui, invece fu solo l’inizio: Rota, affogato dai debiti, nel 1942 viene richiamato da Matarazzo per Giorno di nozzeIl birichino di papà, rientra nel giro e cominciano anni in cui fa anche dieci colonne sonore all’anno, con tempistiche folli e partiture realizzate in due giorni. «Furono come anni di galera, ma servirono per uscire dal disastro economico. Fellini lo incontra sul set di un film in cui recita Giulietta Masina: Rota diventa prima amico della Masina, poi di Federico». Nasce lì la coppia che avrebbe segnato la storia del Novecento italiano: «Fellini sapeva che Rota poteva risolvergli una scena con un solo motivo e sapeva che era in mani sicure. Per questo il sodalizio durò tanto».

Nino Rota.

Da Richard Galliano ai Solistas Brasileiros, da Petra Haden a Fabrizio Bosso passando addirittura per l’arpa di Anneleen Lenaerts, Rota in questi quarantacinque anni è stato omaggiato e riarrangiato in migliaia di modi, citato in mondi sonori anche distanti, da Michael Moore che in Capitalism: A Love Story infila il tema de Il bidone, a Larry David che usa Amarcord in Curb Your Enthusiasm, e poi autori come Gus Van Sant, Todd Haynes, I Soprano, senza contare le digressioni in generi come jazz, pop e soul: «E va ricordato il disco che Hal Willner produsse nel 1981, Amarcord Nino Rota, disco che oggi non si riesce a fare ripubblicare purtroppo», ricorda Lombardi, «Carla Bley, Bill Frisell, Dave Samuels, William Fischer alle prese con versioni jazz dei classici di Rota, incredibile. Volevamo rifarlo a New York con Hal ma non è stato possibile, chissà che in futuro non riusciamo a realizzare un altro progetto».

Rota quarantacinque anni dopo quindi: cosa resta? Poche fotografie perché odiava farsi riprendere e fotografare, ma, al netto di questo, in verità succede poco, la cultura italiana non ricorda molto uno dei più grandi compositori del Novecento, per non parlare di Milano dove non esiste una targa o qualcosa che lo ricordi, visto che la tomba è a Roma, al Verano. Recriminazioni? «No, ma questa cosa io la ribalterei», riflette Lombardi, «oggi Rota è ancora suonato e reinterpretato, nonostante sia aumentata a dismisura la quantità di musica fruibile ed è già incredibile. Oggi lasciare un segno ha del miracoloso: Rota continua a essere riconoscibile e la sua apparente semplicità è diventata eterna. E non è mica poco».

Rimane spazio per un ricordo, un’immagine da portarsi addosso: «Alla fine degli anni Settanta avevo vent’anni ed ero presuntuoso e ignorante come tutti quelli della mia generazione», ride Lombardi. «Lui era un uomo coltissimo, viveva tra Roma e Bari, e ogni tanto veniva a Milano e ci vedevamo. Era un uomo schivo e timido, ma molto curioso. Gli feci una tirata pazzesca su John Cage, poi andammo a vedere alla Scala il Pierrot Lunaire di Schönberg. Non lo vedemmo tutto perché Rota era perennemente in ritardo, so solo che alla fine gli sparai una cavolata, un’opinione forte di cui oggi ancora mi vergogno (ride, nda). Lui stette zitto e non mi disse che aveva visto la prima italiana al Lirico. Lo scoprii molti anni dopo. Un consiglio per ricordarlo oggi? Andate a riascoltarvi la colonna sonora Giulietta degli spiriti…».

  • SOUNDTRACK | Le colonne sonore secondo Hot Corn. 
  • AUDIO | Un estratto dalla colonna sonora di Giulietta degli spiriti:

 

 

 

 

 

 

 

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