ROMA – «Ho amato vivere qui». Sugli spazi della casa, della vita e del tempo che è trascorso, tra quelle quattro pareti, che hanno visto succedersi generazioni, relazioni, dolori e scelte, restando lì, ancora e per sempre. Quanto è vero, che quando tutto intorno muta e così dentro di noi, i luoghi restano gli stessi? Come a ricordarci che il cambiamento è prospettiva, mentre le radici non vengono mai del tutto recise, specie quelle tra noi e le case o più in generale, i luoghi in cui abbiamo vissuto. Nonostante il logorio del tempo e l’addio. Il ricordo, che è in qualche modo, una parte fantasmatica di ciò che siamo stati, è lì che resta. Negli spazi attraversati, che inevitabilmente hanno plasmato la nostra crescita e la grande avventura della vita. La stessa che ci ha preceduti, la stessa che seguirà. Quante case abbiamo cambiato? Quanti luoghi che ancora ricordiamo, oggi non ci appartengono più, pur mantenendo una vivida fotografia delle nostre vite?

Lo sa bene Robert Zemeckis, che dopo indimenticabili esplorazioni stilistiche e narrative di scenari sconfinati e ambiziose sperimentazioni d’immagine, in occasione del suo 22esimo lungometraggio da regista, Here, torna a casa. A dimostrazione del fatto che l’avventura più grande, non ha a che fare esclusivamente con il viaggio fisico, poiché è l’emotività che conta più di ogni altra cosa. Dunque l’epopea familiare, circoscritta non agli spazi della casa, potenzialmente indefiniti, bensì a quelli di un salotto. Lì dove hanno inizio e fine, amore e la vita. Lì dove c’è rimpianto, silenzio, arte, rabbia e verità e i sentimenti non si arrestano, poiché tutto è concesso. D’altronde dove, se non in famiglia e a casa, possiamo essere noi stessi, senza alcun timore di giudizio?

Dunque, ancor prima di farsi cinema di sperimentazione e indagine sulle infinite possibilità visive e narrative del deaging e più in generale della CGI – tenendo conto del fatto che Here ha inizio con lo spazio della natura, attraversato e vissuto prima dai dinosauri e poi dai Nativi Americani, osservando dunque una spettacolarità destinata ad esaurirsi di lì a poco -, Zemeckis intende scavare a fondo su ciò che tutti noi siamo negli spazi della casa: volti e corpi segnati dal tempo e non più maschere, plasmate dalla società. Infatti, attorno alla saga della famiglia Young, dapprima Rose e Al (splendidi Kelly Reilly e Paul Bettany), poi Margaret e Richard (Robin Wright e Tom Hanks, ancora una volta rincorrono le possibilità dell’amore, ci riusciranno?), gli Stati Uniti mutano incessantemente, da Pearl Harbor ai Beatles, fino all’evoluzione della TV e il Covid, sussurrando l’esistenza del cambiamento, senza mai stravolgere le logiche della vita e dell’emotività della casa.

Per la stessa ragione, tutto ciò che è interno è vitale, contradditorio, amabile e al tempo stesso respingente. Attraverso la parola, gli sguardi e i tempi del silenzio e dell’azione, vita e amore nascono, si trasformano e si sgretolano, assumendo nuovi volti e percezioni, così come i dipinti e i corpi, che il tempo trasforma, illuminandone bellezza degli inizi e deterioramento della fine. Mentre ciò che è esterno, resta per tutta la durata del film, spaventosamente immobile, fumettistico (d’altronde tutto nasce dalla splendida graphic novel di Richard McGuire) per quanto abbozzato e cartoonesco nel suo restare estraneo – fatta eccezione per quell’improvvisa adesione del più giovane degli Young ai Navy Seal –, sussurrato, astratto e stranamente inavvertito, al di là delle esplicite dichiarazioni temporali.

Here, qui. Lo spazio della casa e del cambiamento, dove il cerchio della vita si mostra appieno, senza alcuna limitazione di sorta. Un film questo che potremmo associare ad un ritratto familiare, apparentemente anonimo e ordinario. Eppure è proprio lì che si cela la grande avventura della vita. Nell’ordinarietà dei gesti, delle parole e delle emozioni, che assumono significati sempre differenti e nuovi, a seconda del periodo, dello sguardo e inevitabilmente della cura che si sceglie di prestare. Quanti ne abbiamo visti? Quanti ritraggono noi? Dietro quei volti, corpi e luoghi, un’intera vita, un’epopea familiare, o altrimenti avventura individuale e solitaria, che come ogni altra, ha attraversato luoghi, abitazioni, finestre e scelte. Qui, dove siamo adesso, dove qualcuno un giorno sarà.

Un’esperienza cinematografica unica nel suo genere, le cui limitazioni di spazio, sono in realtà chiave di un discorso estremamente ampio, che ha a che fare con le nuove forme di racconto e la capacità di tornare indietro, ai primissimi linguaggi della soap e della TV, soffermandosi poi sul palcoscenico teatrale. Lì dove ognuno di noi può inizialmente osservare una fine, dimenticandola poi alla comparsa degli attori, della scenografia e dell’avventura. A differenza del teatro però, quelle di Here non sono maschere, bensì volti. La differenza è enorme e risiede in ognuno di noi. Estremamente commovente e così come molto cinema di Zemeckis, gentile e universale.
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