ROMA – Di sogni e di chitarre, di grida e di drammi, con gli occhi puntati verso il cielo, perché solo lì, lontano da tutto, sarebbe stato libero e felice. Poco dopo l’esplosivo incipt in totale stile Baz Luhrmann, ecco la scena che reinventa la leggenda ed il cinema si fa macchina del tempo, elaborando sotto forma di sfuggente realtà quello che abbiamo solo potuto immaginare: un giovane Elvis Aaron Presley corre per Beale Street – il cuore di Memphis, dov’è nato il blues – finendo per essere catturato dal suono mistico di Furry Lewis. Gli occhi del ragazzo si illuminano, resta abbagliato, stordito. La leggenda incontra la Storia, il viaggio di Elvis diventa la santa Parola da tramandare, immergendosi in un battesimo di musica e sudore che lo avrebbe reso immortale. Dall’altra parte, andando veloce negli anni – il montaggio di Matt Villa e Jonathan Redmond è straordinario –, riecco Elvis, sul palco, vestito e truccato come Capitan Marvel Jr., l’eroe dei fumetti che inconsciamente gli ha indicato la via.
Siamo nel Sud degli Stati Uniti d’America, nel pieno degli Anni Cinquanta, segnati dalla Coca-Cola e dalla segregazione razionale. Ad interpretare il Re, affiancandosi alla mimica e alle emozioni, una rivelazione chiamata Austin Butler. Baz Luhrmann sa che davanti a lui c’è una figura enorme, e allora non può che osservarlo con un referenziale rispetto, sottraendo (un po’) il suo eclettismo visivo, nonché gli irresistibili toni barocchi che contraddistinguono la sua filmografia. La macchina da presa osserva Elvis da vicino, un dettaglio alla volta, incrociando parallelamente la faccia di Tom Hanks, tramutata in quella del mefistofelico Colonnello Tom Parker, co-protagonista e narratore onnisciente del film, accorso dopo averlo sentito, per caso, alla radio. Tom Parker, scaltro imbonitore con il fiuto per il business; Elvis Aaron Presley, figlio di mamma Gladys e di papà Vernon, davanti ad una platea di bianchi a suonare musica nera.
Un momento spartiacque per la storia sociale e politica degli Stati Uniti, un’istantanea di pura arte cinematografica. Nessuno, fino a quel momento, aveva infatti assistito ad una cosa del genere: la voce dolce eppure potente che intona Hayrde, il corpo che trasuda erotismo, un ritmo insaziabile, insostenibile. Quasi alieno. Rivoluzione ed estasi. Le donne mollano gli imbalsamati mariti e iniziano ad urlare come fossero ossesse, possedute da una forza sovrumana pregano e invocano (un) Dio sceso in terra. Piangono e gemono, come se si fossero risvegliate da un torpore perpetuo. Un orgasmo di musica e amore, mentre noi, che in quel momento assistiamo all’uomo fattosi religione, tradotto in due ore e quaranta di assoluto cinema, veniamo sconquassati da un’ondata di bellezza. Tanto che, per un attimo, dimentichiamo sia solo un film.
L’amore, appunto, quello che muove le stelle e che muove Elvis: l’amore dei fan, ricambiato con l’onestà artistica, esplosiva sul palco, tormentata nei momenti di vuoto. L’amore per Priscilla e per sua figlia Lisa Marie. L’amore profondo per sua mamma, punto di riferimento, luce in fondo alle tenebre. Ecco, l’amore e le tenebre, il gioco di riflessi su cui Luhrmann costruisce il film, narrando l’epopea mitica di un ragazzo a metà, intrappolato in una gabbia d’orata da cui è impossibile scappare. I riflessi sono quelli intrecciati sui due cardini del racconto: Elvis da una parte, il Colonnello Parker dall’altra. Il supereroe idolatrato e il cinico cattivo, colui che lo ha incornato Re e colui che lo ha ridotto a pagliaccio di corte. Il regista non li molla mai, tiene il passo del mito e li insegue a cavallo del tempo filmico mai ridondante, nonostante la durata biblica.
Elvis e Parker, elementi perfetti di un film di Hollywood, archetipi reali di una tragica fuga consumata in una notte di mezza estate. Dunque nel film il punto di vista si rimbalza, il ritmo è forsennato, Baz Luhrmann supera sé stesso, punta alla milza e fotografa con precisa oggettività – e con le giuste licenze poetiche – l’ascesa di un uomo vivo, morto e risorto. Dalla veranda di Tupelo agli studi della RCA, dalla rabbiosa If I Can Dream, urlata in occasione del The ’68 Comeback Special, fino agli estenuanti live di Las Vegas: un volo di sola andata, in cui si mescolano volti e sensazioni, ricordi lontani e divinità pagane. In mezzo, in uno spettacolare tripudio che non vorremmo si arrestasse, il cinema come foglio bianco, in cui l’ultima parola, nonostante tutto, non è mai stata scritta. Perché alla fine, quando le luci si accendono e il sogno svanisce, una certezza si rafforza: Elvis non è morto, è tornato a casa.
- Nel nome del Re: come riscoprire Elvis in streaming
Qui il trailer di Elvis:
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