ROMA – Siamo a Palermo, nel 2015. Leonardo (Manfredi Marini), diciannove anni, lascia la città natale per raggiungere a Londra la sorella (Vittoria Planeta) e iniziare gli studi di business. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale presto svanisce. Inquieto, si iscrive d’impulso all’Università di Siena per studiare letteratura. Ma anche qui, molla il corso e decide di immergersi da solo nello studio dei testi di “bella lingua” italiani. Sarà un anno accademico di solitudine, sporadica e strana socialità e confronti generazionali. Un anno dopo, Leonardo è a Torino, dove incontra un uomo con cui avrà un confronto più diretto del solito. Presentato in concorso a Venezia, a Orizzonti, ecco Diciannove, opera prima di carattere di Giovanni Tortorici – prodotta dalla Frenesy Film Company di Luca Guadagnino – che alla maniera di tanti siciliani prima di lui, sceglie di raccontare la tappa formativa della partenza e della ricerca di fortuna verso terre altre.
In questo caso quella del Leonardo di un nevrotico, caotico e semplicemente magnetico Marini la cui mimica mutevole fa già scuola. La differenza, in Diciannove, la fa il modo in cui questo viene raccontato. Perché Tortorici non sceglie il più che prevedibile sviluppo lineare e nemmeno una via semplice. Diciannove è un un loop esistenziale, un coming-of-age sulle indecisioni e l’incapacità di trovare il proprio posto nel mondo. Un film di autosabotaggio e alienazione, di presunzione e solitudine, ma anche di folle genio, (dis)equilibrio e felicità mancata. Un’opera amara sull’incompiutezza vitale che ci ricorda l’importanza di saper trovare la propria via, a qualsiasi età e con qualsiasi mezzo necessario, perché in certi momenti diventa per davvero l’unica cosa che conta.
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