«Vorrei che potessimo parlare più a lungo, ma sto per avere un vecchio amico per cena stasera». La frase, apparentemente innocua, da lui pronunciata sul finale de Il silenzio degli innocenti, assumeva contorni macabri e apriva scenari inquietanti, ultimo atto di un capolavoro che il 30 marzo del 1992 avrebbe poi vinto i cinque Oscar più importanti – e solo Accadde una notte e Qualcuno volò sul nido del cuculo c’erano riusciti – cambiando per sempre Hollywood. Al centro dell’opera di Jonathan Demme c’erano lui, Anthony Hopkins, e l’altro, Hannibal Lecter, occhi spiritati e voce profonda a giocare con la malcapitata Clarice di Jodie Foster.
All’epoca l’attore gallese – che il 31 dicembre compie ottant’anni – aveva già cinquantaquattro anni e una carriera alle spalle, con due nomination ai Golden Globe e due Emmy vinti, una lunga lista di film e – soprattutto – molto teatro, a partire dagli anni Sessanta con una divinità come Laurence Olivier al fianco. Fu però il successo e l’Oscar con il film di Demme – magistrale nel dirigerlo – a trasformare Hopkins da attore rispettato a divo dal cachet pesante, a dimostrare che nonostante il flop de Il Bounty a fianco di Mel Gibson nel 1984 poteva essere ancora una stella di prima grandezza. Non a caso poi arrivarono Oliver Stone, Steven Spielberg, Ridley Scott e Woody Allen con Hopkins che negli anni Novanta poteva scegliere letteralmente qualsiasi regista con cui girare.
Negli ultimi anni l’attore ha scelto con meno cura, mescolando cinecomics Marvel come i tre Thor e Transformers – L’ultimo cavaliere con passi falsi come Go with me o Il caso Freddy Heiniken, ma fiutando ancora il ruolo giusto, l’asso da pescare nel mazzo, in questo caso Westworld con il suo dottor Robert Ford. In mezzo a tutto questo, fatevi un regalo, cercate di riscoprirlo in un piccolo marginale ruolo, quello del portiere in Bobby di Emilio Estevez che gioca a scacchi con l’amico Harry Belafonte cercando di ingannare il tempo.
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