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Tra Istanbul e la Germania: il lungo ponte di Fatih Akin

Da La sposa turca a Oltre la notte: il cinema necessario del regista. Tra integrazione e terrorismo

Fatih Akin e Istanbul. Foto: Shutterstock

Due anni fa un gruppo tedesco di estrema destra, Nürnberg 2.0, ha stilato una lista nera di politici e artisti considerati ostili. Scorrendo l’elenco ci s’imbatteva anche nel nome di Fatih Akin, regista tedesco di origine turca, nato in Germania nel 1973, da sempre affascinato dall’incontro-scontro tra culture differenti. E oggi, dopo il passaggio a Cannes e un Golden Globe come miglior film straniero, nelle nostre sale c’è Oltre la notte, pellicola che prende spunto dalla cronaca – dal 2000 al 2007 furono dieci gli omicidi in Germania ricondotti al gruppo neonazista National Socialist Underground – per essere poi trasfigurata nella storia della protagonista Katja – una grande Diane Kruger – la cui vita viene stravolta da un attentato terroristico di matrice neonazista. Un film tripartito e dalle sfumature thriller che, indagando lutto, (in)giustizia e desiderio di vendetta, racconta il rigurgito razzista e fascista – mai realmente sopito – che attraversa l’Europa (e non solo).

Faith Akin e Ulrich Tukur sul set di Oltre la notte.

La personale risposta di Akin a quell’intimidazione è arrivata, dunque, attraverso il suo lavoro da sempre proiettato verso il racconto di una società multietnica, le sue problematiche, i pregiudizi e l’incontro di mondi. Una passione che l’ha allontanato da quell’adolescenza turbolenta trascorsa nel quartiere di Altona, Amburgo, e da quello che poteva essere un percorso già tracciato da amicizie sbagliate dalle quali la madre, un’insegnante, lo allontanò grazie al potere immaginifico della letteratura. E proprio nel suo quartiere è ambientato Kurz und Schmerzlos, debutto alla regia datato 1998 nel quale racconta le storie intrecciate di tre amici – un turco, un greco e un serbo di seconda generazione – dando così inizio ad una nuova stagione del cinema turco-tedesco.

Sibel Kekilli e Fatih Akin in una pausa sul set de La sposa turca. Era il 2004.

Una filmografia – corteggiata e premiata da molti festival – divisa tra il cuore dell’Europa e la porta dell’Oriente che dei suoi colori, suoni, sapori, volti e contrasti si nutre. Un cinema on the road (Im Juli), fatto di storie di emigrazione (Solino), ritorni nella terra d’origine (Ai confini del paradiso) e peregrinazioni (Il padre) che trova ne La sposa turca, Orso d’oro a Berlino, e in Soul Kitchen, Leone d’argento a Venezia, le due facce complementari del suo pensiero registico. Da un lato la storia dei due aspiranti suicidi e di una libertà individuale rivendicata nel matrimonio di facciata tra Sibel e Cahit, dall’altro la piccola epopea del cuoco Zinos in equilibrio precario per restare a galla fra le difficoltà quotidiane.

Il regista, Adam Bousdoukos, Dora Gryllus e la troupe sul set di Soul Kitchen, 2009.

Due toni differenti, dramma e commedia, e due respiri, intimo e corale, diversi. Eppure in questi due titoli si ritrova l’universo filmico di Akin. Un intreccio di lingue, culture e tradizioni che rischiano di non dialogare tra di loro entrando in conflitto o, invece, di dissolvere i confini geografici influenzandosi a vicenda. E dall’esordio ad oggi, i suoi film hanno fatto delle relazioni umane l’elemento costante di una variabile di storie e intrecci sempre nuovi. Da Amburgo a Mersin, passando per la Puglia e la Grecia, raccontando di turchi, serbi, italiani, tedeschi, greci e armeni, di prime e seconde generazione, Fatih Akin ha fatto del suo cinema un ponte tra culture. Proprio quello di cui abbiamo bisogno.

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