MILANO – Tutto merito di Howard Shore. Il compositore canadese, prima di collezionare Oscar con le sue colonne sonore, suggerì all’amico Dan Aykroyd e a John Belushi il nome The Blues Brothers per i fratelli Jake e Elwood Blues, personaggi nati nel dietro le quinte del Saturday Night Live che di lì a poco sarebbero diventati due leggende del cinema. Era il 20 giugno del 1980 quando The Blues Brothers – lo trovate in digitale su CHILI mentre al Pesaro Film Festival verrà omaggiato con una serata speciale il 23 agosto – uscì in 600 cinema americani. Quello stesso weekend in cartellone c’era anche L’Impero colpisce ancora, secondo capitolo di Guerre Stellari che si aggiudicò i migliori incassi di quel fine settimana (ovviamente).
Secondo gradino del podio per il film di John Landis reduce del successo clamoroso di Animal House con protagonista proprio Belushi. Massacrato dalla critica, The Blues Brothers – un po’ musical, un po’ commedia, un po’ film d’azione, un po’ vita reale – quarant’anni dopo è uno dei titoli più celebri della storia del cinema. Un cult assoluto al pari de Il Grande Lebowski o di Rocky Horror Picture Show che ha fatto di quei due fratelli «in missione per conto di Dio» delle icone, anche di stile. Completo nero, cravatta, occhiali da sole e una Dodge Monaco del 1974, la Bluesmobile, con cui sfrecciare per le strade di Chicago per aiutare la Pinguina – Suor Mary Stigmata – e salvare l’orfanotrofio in cui erano cresciuti.
Chicago, la città del blues e del jazz – e poi dell’hip hop e del rap, ma questa è un’altra storia -, con la sua metro sopraelevata e i grattacieli, le tavole calde e i negozi di dischi è la co-protagonista perfetta del duo di musicisti galeotti decisi a rimettere in piedi la Blues Brothers Band. Un gruppo (reale) nato per la comune passione di Belushi e Aykroyd per quel genere omaggiato dalla colonna sonora perfetta e quella serie di cameo che da James Brown, Cab Calloway e Pinetop Perkins passano per Ray Charles, Aretha Franklin, Big Walter Horton e John Lee Hooker. E pensare che la produzione aveva storto il naso a leggere quei nomi, considerati troppo vecchi e senza una nuova hit in classifica da anni.
La stessa produzione che aveva stimato un budget da 12 milioni di dollari per realizzare il film ma che si ritrovò a tirarne fuori dalle tasche quasi 30. Una lavorazione turbolenta, tra gli eccessi di Belushi con alcool e droga – parte delle spese erano riservate a rifornire il set di polvere bianca -, le idee contrastati di Aykroyd e Landis su quali scene tagliare dalla sceneggiatura (inizialmente di 324 pagine poi nettamente alleggerite dal regista), le pressioni della produzione e gli incidenti sul set che ospitò, tra i tanti, anche Carrie Fisher, Henry Gibson, John Candy, Steven Spielberg e Twiggy.
Ma cosa rimane oggi del film? Un sequel, Blues Brothers: il mito continua, che non riuscì a bissare il successo dell’originale, libri, un videogame, addirittura un manga ispirato ai due fratelli Blues, una serie animata e l’accusa (ieri come oggi) di appropriazione culturale (due bianchi protagonisti di una storia che gira attorno ad un genere musicale black con attori afroamericani relegati in ruoli secondari) e un posto di diritto nella cultura pop del Novecento tra lanciarazzi, inseguimenti, esplosioni, nazisti dell’Illinois e vecchie band country alle calcagna.
Ma su tutto restano due personaggi incarnati alla perfezione da John Belushi e Dan Aykroyd, amici, complici, delinquenti sonori, tra la comicità irriverente e mai appassita e quei numeri musicali che, da Everybody Needs Somebody to Love e Think, da Minnie the Moocher a quel finale sulle note di Jailhouse Rock con buona parte della crew vestita da detenuti a tenere il tempo con le posate di latta, a quarant’anni di distanza ci fanno non solo parlare ancora di loro, ma alzare il volume ancora e ancora, sempre più alto. Perché non ci basta mai.
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- John Belushi, il grande assente. Tra folli risate e anarchia.
Qui potete vedere la scena finale del film:
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