ROMA – Charlie Kaufman ha bisogno di ben poche presentazioni: chi frequenta l’ambito delle sceneggiature per il cinema, soprattutto da un punto di vista pratico, l’avrà già eletto, probabilmente, a nume tutelare. Magari avrà anche letto e riletto i suoi lavori nel tentativo di carpirne i segreti, scioglierne i nodi e smussarne gli angoli più spigolosi (forse invano). Col passare degli anni la mitologia kaufmaniana non si è mai arrestata e, se possibile, è stata accresciuta da una certa dose di reticenza da parte del diretto interessato, che però non ha mai rinnegato quell’invadenza verso il lavoro dei registi chiamati ad adattare i suoi copioni, puntualmente in bilico tra grottesca disperazione e assurdità radicale.
Kaufman dopotutto è l’autore di Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee e dell’indimenticato Se mi lasci ti cancello, un film capitale per il nuovo millennio che gli è valso l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale e che ha segnato (e talvolta traviato) un’intera generazione di cinefili. Le sue regie, l’autobiografico Synecdoche, New York col compianto Philip Seymour Hoffman e il film d’animazione Anomalisa (un gioiello di umanissimo disagio), hanno lasciato il segno più su un’affezionata nicchia di appassionati che sul grande pubblico, tanto che i rapporti di Kaufman con gli studios si sono incrinati: il primo rastrellò 4,5 milioni di dollari, mentre Anomalisa si fermò a 5,7 a fronte di un budget di 8. Non certo cifre stellari.
Non è dopotutto un cineasta né uno scrittore conciliante, Charlie Kaufman, e la sua frase più celebre, «Non ho idea di che cosa diavolo sia il terzo atto», dice molto di lui e ci fa capire quanto poco possa andare d’accordo con i dettami di un team di produttori che intenda solo – spesso legittimamente – quintuplicare il budget di partenza. Il suo è una sorta di istrionismo al contrario, di ripiegamento compulsivo (su se stesso) di smodate ambizioni surreali: la sua scrittura, anche quando al servizio di immagini sopra le righe, somiglia sempre alla materializzazione di un sintomo psicoanalitico, che si tenta di ricondurre a una dimensione tanto torbida quanto plastica, nella tradizione ebraico-newyorkese di Philip Roth. Il suo gigantismo, insomma, anche quando tenta di shockare visivamente, è sempre tutto mentale.
Charlie Kaufman di recente si è affrancato dal mondo delle major e il suo nuovo film, Sto Pensando di Finirla Qui, thriller dalle venature horror su un ragazzo che accompagna la sua nuova fidanzata all’isolata fattoria dei genitori, l’ha realizzato con Netflix, poggiando sulle libertà creative fornite a fondo perduto e senza troppi complimenti dal colosso di streaming on demand (uscirà il 4 settembre). Ma soprattutto, ed è una grande notizia per una penna come la sua che però stupisce fino a un certo punto, ha pubblicato il suo primo romanzo, Antkind, appena uscito negli Stati Uniti con Penguin Random House (in Italia a pubblicarlo sarà Einaudi).
Il libro ha protagonista un critico cinematografico nevrotico (in fondo, tutto il cinema di Kaufman ha incorporata una sorta di autoanalisi implicita), tal Mr. B. Rosenberg, impegnato in un lungo viaggio in Florida, «sulla strada che va da New York a Sant’Agostino», per fare ricerca su un libro al quale sta lavorando, dedicato al rapporto tra cinema e genere. Quest’ultimo virgolettato appartiene a Matthew Specktor, che ha recensito Antkind sul New York Times sottolineando come la storia possa somigliare a Infinite Jest di David Foster Wallace, sostanzialmente per la capacità di tenere insieme Shakespeare e Hegel con un clima da interminabile barzelletta pop, e definendo il protagonista «un vulcano di opinioni ridicole e nevrosi assurde, un incubo calvo e barbuto di una persona le cui involuzioni potrebbero praticamente reggere una narrazione di 700 pagine da sole perché, proprio come lui, sono sfrenatamente divertenti».
Antkind, nella sinossi che era stata diffusa tempo addietro, veniva già definito come «un un sorprendente viaggio nei ridicoli meandri della sua psiche, a metà strada tra rigogliosi passaggi kafkiani e l’atrofizzante e continuo “vomitare” del feed di Twitter». Una sintesi abbastanza esaustiva del tocco di Kaufman, ma la recensione di Specktor aumenta, se possibile, l’acquolina dei fan dell’autore, oltre a segnalarci che il protagonista del libro ama in particolare, tra i suoi registi prediletti, Godard e Judd Apatow (un accostamento solo in apparenza peregrino) e ha per bestia nera proprio Kaufman.
Il libro parla anche della ricerca dell’unica copia fisica di un film muto del 1914, intitolato A Florida Enchantment: un titolo che può far pensare a certe atmosfere torride e inquiete dell’America di Pynchon, pietra di paragone che Specktor cita insieme a John Barth, Joshua Cohen e al romanzo di Jonathan Lethem Chronic City, anch’esso con protagonista un critico cinematografico. Per il recensore del NY Times, però, Antkind («un libro eccezionalmente strano che è anche eccezionalmente buono», a suo dire) non è solo «una rappresentazione che non tiene troppo conto della realtà che si incrocia con una sorta di stranezza psichedelica», ma anche un romanzo più vicino ai cartoni animati di Tex Avery e a uno sketch di Abbott & Costello (da noi Gianni e Pinotto) piuttosto che alla «spaventosa tradizione postmoderna» di tanti testi e autori fin qui citati. Non resta, con queste premesse, che stringerlo in mano prima possibile per assaporare i mille contrasti (e gli altrettanto anfratti) della mente e della prosa di Charlie Kaufman.
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